domenica 16 dicembre 2007

"I FATTI DI SCILLA"

C’è un episodio che, l’inesorabile trascorrere del tempo, ha cancellato dalla memoria comune. Una vicenda che all’epoca suscitò scalpore tanto da meritare ampi articoli sulla stampa locale anche in occasione del conseguente processo penale. E’ un caso, sfociato in fatto di cronaca, che evidenzia lo spirito di critica ai soprusi che un tempo animava gli scillesi. Nella tarda serata del 4 maggio 1920, un inusuale campanello di gente staziona in piazza San Rocco. I convenuti appartengono stranamente alle più svariate classi sociali. Unico fattore che li accomuna, oltre all’essere cittadini di Scilla, è l’appartenenza alla locale sezione degli ex combattenti. Man mano che trascorrono i minuti, la folla s’ingrossa e l’iniziale sparuto campanello, è irrobustito anche da donne e ragazzi. Qualcuno, quasi seguendo un copione già definito nei minimi dettagli, entra nella chiesa di San Rocco, raggiunge il campanile e inizia a far suonare le campane. E’ un segnale, l’ultimo appello che annunzia l’inizio della rivolta contro il Palazzo. Scilla insorge contro il carovita e le ristrettezze alimentari. Nel mirino dei manifestanti, l’amministrazione comunale, guidata dal commissario prefettizio Alessandro Canale, rea di avere approvato un provvedimento con cui si dispone il razionamento del pane. Quella notte, come recita la sentenza penale, “buona parte della popolazione” si riversò in piazza. La folla tentò di occupare il municipio, presidiato da carabinieri e guardia di finanza. I militari avevano la consegna di restare immobili e non replicare alle invettive dei dimostranti. Formato quindi un cordone invalicabile a difesa della casa comunale, i tutori dell’ordine pubblico restavano impassibili innanzi alla marea di scillesi in tumulto. L’ordine era quello di non dare alcuno spunto capace di infiammare ulteriormente gli animi. Tuttavia, questa forma di “adattamento” adottata da carabinieri e guardia di finanza, non durò a lungo. La situazione precipitò e si passò al corpo a corpo. Le forze di polizia, armi in pugno, caricarono la folla. Seguirono scontri violenti. Una donna assalì il maresciallo e con un morso lo ferì al naso. Il gran trambusto consentì ad alcuni di penetrare all’interno del palazzo comunale. I manifestanti, messi a soqquadro alcuni uffici, accatastarono mobili e documenti dandoli alle fiamme. Si trattò, comunque, di un tentativo d’incendio. Le poche persone riuscite ad entrate nel municipio furono costrette a battere in ritirata dall’intervento energico dei carabinieri. La sommossa ebbe conseguenze penali che coinvolsero circa trenta cittadini. Tra gli imputati, difesi da un collegio di legali composto, tra gli altri, dal futuro sindaco e podestà Valentino Varbaro, vi era anche il commendatore Giuseppe d’Amico (nella foto), importante figura della vita politica cittadina che in futuro sarà nominato commissario prefettizio ed eletto più volte sindaco. Nel 1921, i giudici del Tribunale penale di Reggio Calabria mandarono assolti tutti gli imputati, poiché non “fu possibile ricostruire esattamente i fatti”. La stesura di quel verdetto, a parere dello storico Domenico Cersosimo, fu determinata anche da fattori “politici”, che vanno individuati nel mutato clima politico nazionale. I disordini di quella notte furono ricordati dalla stampa come “I fatti di Scilla”.

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